sabato 29 novembre 2008

il punto di vista di Harry

Nel post precedente ho cercato di illustrare come un racconto posse essere scritto da diversi punti di vista. Lasciavo in sospeso la questione del punto di vista adottato in Harry Potter.

Il primo volume comincia con un breve racconto: Silente lascia il piccolo Harry sulla soglia della casa degli zii. Il racconto è breve: si esaurisce in un capitolo, finito il quale ritroviamo Harry ormai cresciuto. Sono trascorsi molti anni. Si può ben dire che il primo capitolo serve da antefatto.

L'antefatto ha una caratteristica peculiare: Harry è troppo piccolo per capire che cosa succede. Impossibile perciò raccontare alcunché dal punto di vista di Harry. Che punto di vista viene lì adottato? Lascio la domanda in sospeso.

Dal secondo capitolo in poi, il punto di vista diventa quello di Harry. Si tratta del punto di vista interno: sappiamo tutto quello che Harry sente, vediamo quello che vede, siamo informati di quello che pensa. Non si tratta perciò di punto di vista esterno.

E se ci trovassimo di fronte a un narratore onnisciente? Non sappiamo forse anche quello che pensano gli amici di Harry? Quello che pensa Ron per esempio?

Direi proprio di no. I pensieri di Ron ci sono sconosciuti, a meno che li manifesti all'esterno, confidandosi con Harry; i sentimenti di Ron non ci sono noti direttamente, a meno che traspaiano all'esterno: allora li possiamo leggere sul suo volto, nei suoi gesti, nel tono della sua voce. Il fatto è che Ron è estroverso: raramente si tiene dentro quello che pensa. Semmai parla prima di avere pensato a sufficienza, almeno fino al 4° volume. Ecco perché conosciamo i suoi pensieri: perché Harry li conosce.

Analogo discorso si potrebbe fare per gli altri amici di Harry: sappiamo di loro quello che sa Harry. Perciò sappiamo sempre di meno del loro mondo interiore, man mano che ci allontaniamo da Harry.

Un'eccezione si trova al principio del libro 4°: mi ricordo di averlo notato con sorpresa nel corso della lettura. Veniva raccontato quanto accadeva in una casa di campagna. Si vedevano Codaliscia, Nagini e quel mostriciattolo di Voldemort. Com'era possibile? La Rowling aveva deciso di abbandonare il puno di vista interno di Harry? O addirittura commetteva un errore?

Nulla di ciò. Alla fine del capitolo, Harry si sveglia, e apprendiamo che in sogno stava vedendo quanto accadeva nella casa abbandonata. Ecco perché potevamo vederlo anche noi.

Si apre ora una domanda: che risultato ottiene la Rowling adottando il punto vista interno di Harry?

Vedo che dovrò proseguire ancora un poco i miei post, per rispondere a questa domanda.

sabato 22 novembre 2008

due post sul punto di vista, e chiudiamo

Cari amici,

spero che ci siamo divertiti insieme a cercare di prevedere la fine di Harry Potter, un anno fa. Tutto il blog era stato impostato su questo. Dopo rimaneva solo un po' di bilancio da fare. Fatto quello, avrei dovuto chiudere. Mi dispiaceva un po', e ho rinviato la decisione. Mi dispiace di avere in questo modo creato l'illusione che questo diario potesse proseguire.

Ora scrivo due post sul punto di vista e poi chiudo davvero. Nel penultimo post vorrei parlare in generale del punto di vista, nell'ultimo del punto di vista da cui è raccontato Harry Potter.

1) Non sempre un racconto ha un punto di vista. Alcuni narratori preferiscono raccontare come se fossero onniscienti. Ne hanno il diritto: in fin dei conti, stanno creando un mondo. Sono gli autori che ti dicono che cosa accade in luoghi molto lontani dall'azione principale, che ti dicono che cosa pensano dentro di sé i diversi personaggi.

In questo modo si scrive: «il lupo mannaro si avvicinò alla porta della stanza dei ragazzi. I ragazzi videro la maniglia che si abbassava, ma mai avrebbero immaginato che cosa stava per entrare».

2.1) La prospettiva del narratore onnisciente non è l'unica possibile. Stevenson e Dickens amavano scrivere racconti in prima persona. La voce narrante era quella di uno dei personaggi in scena, e il punto di vista si restringeva. Il narratore non poteva più sapere che cosa pensavano personaggi diversi da quello di cui avevo adottato la prospettiva: sembrerebbe incongruo al lettore. Il narratore parlava dal punto di vista del suo personaggio.

Si scrive allora: «Ero con mio fratello nella nostra stanza. Sentii un rumore fuori dalla porta, e dissi: Papà, sei tu? Nessuna risposta. Invece la maniglia cominciò ad abbassarsi».

Se proprio non ce la faceva più e voleva dire qualcosa che il suo personaggio non poteva sapere, il narratore ricorreva al senno di poi: cioè a quelle conoscenze che il personaggio focale aveva acquistato dopo la fine della storia raccontata. Si trattava allora di una trasgressione del punto di vista.

Potrebbe aggiungere: «Se avessi saputo che cosa stava per accadere, avrei afferrato mio fratello e sarei fuggito dalla finestra».

2.2) Nel xix secolo, Henry James teorizza la superiorità del racconto condotto dal punto di vista interno. Ma, con genialità, distingue il punto di vista interno dal racconto in prima persona. Si può benissimo raccontare dal punto di vista interno a un personaggio e scrivere in terza persona.

Si scrive allora: «Riccardo era sveglio, il fratellino invece dormiva. Riccardo sentì uno strano rumore fuori dalla porta ed ebbe paura. "Papà, sei tu?" Nessuna risposta. Invece la maniglia cominciò ad abbassarsi. La paura crebbe in terrore. Riccardo scosse, il fratellino, che si svegliò di colpo e gridò».

Si noti che il narratore sa che cosa pensa Riccardo. Conosce i suoi sentimenti e le loro gradazioni: dalla paura al terrore. Se anche che a Riccardo il rumore fuori dalla porta sembra strano.

Il narratore non conosce invece i sentimenti del fratellino, perché non li conosce neppure Riccardo. Può però congetturarli, a partire dalle azioni del fratellino e dai mutamenti esterni che i sentimenti inducono. Il grido del fratellino è un gesto che è facile interpretare come una paura improvvisa.

3) A partire da Hemingway, viene usato sempre più spesso un terzo punto di vista: quello esterno, diverso sia dal punto di vista interno sia da quello del narratore onnisciente. In questo caso il narratore ha il minimo di conoscenza: non ha accesso ai pensieri di nessun personaggio, a meno che questi non li manifesti con parole o azioni. Non ne conosce i sentimenti, se non quando emergono al di fuori, alterando il comportamento e le fattezze dei personaggi. Il narratore deve aguzzare l'ingegno per rilevare le espressioni dei personaggi, e deve farli parlare. Ha bisogno di cogliere i dettagli.

Si scriverebbe allora: «Riccardo era sveglio, il fratello piccolo invece dormiva. Un rumore proveniva dall'esterno. Riccardo sbarrò gli occhi e domandò a bassa voce: "Papà, sei tu?" Nessuna risposta. Invece la maniglia cominciò ad abbassarsi. Riccardo si voltò verso Luigi e lo scosse. Luigi si svegliò di colpo e gridò».

Ho dovuto togliere ogni riferimento ai pensieri e ai sentimenti di Riccardo. «Sbarrò gli occhi» è un gesto che rivela la paura di Riccardo. Non parlo più di «fratellino», perché ha una connotazione affettiva che andava bene nella percezione di Riccardo, ma non in quella del narratore esterno. L'ho chiamato Luigi, adottando il nome di battesimo.

Infine: il narratore può passare dall'uno all'altro dei tre punti di vista, a seconda del bisogno, oppure può adottare un punto di vista e attenersi ad esso dal principio alla fine.

Il cambiamento di punto di vista non è necessariamente un errore: a volte è una necessità. Il narratore usa l'una o l'altra risorsa, a seconda dell'effetto che vuole ottenere. Si può invece considerare un errore la commistione dei punti di vista. Se nella seconda o nella terza versione avessi detto che Riccardo sente il rumore del lupo mannaro, avrei fatto un errore. Se nel terzo racconto avessi parlato del «fratellino», o di «Gigi», che è il diminutivo usato da Riccardo, avrei fatto un errore.

Ora, la domanda è: da quale punto di vista è raccontato Harry Potter?